Padre Prosperino Gallipoli da Montescaglioso:
un caterpillar in Mozambico
di fra Francesco Monticchio
da libro: DALLA PARTE DEGLI ULTIMI – PADRE PROSPERINO IN MOZAMBICO
a cura di ENRICO LUZZATI – Silvio Zamorani Editore - 2009
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“La rivoluzione mangia i suoi uomini migliori”
Il triennio che va dal settembre 1974 all’ottobre 1977 fu un periodo denso
di avvenimenti che si possono definire epocali per la storia del Mozambico.
Fra Prosperino Gallipoli ne scrisse una pagina importante inserendosi pienamente
negli eventi e preparandoli con un’azione politica, religiosa e sociale
molto attiva, determinante.
Ma ritengo che questi anni siano stati estremamente significativi anche per
la sua vicenda personale e per le sue convinzioni di vita. Essi segnano il giro di
boa, una sorta di cambio di rotta: sono gli anni in cui Pro matura e integra
profondamente il messaggio evangelico (che ha segnato fino a questo momento
la sua vita di frate e sacerdote), con gli aneliti sociali e di promozione umana
già presenti e operanti nel suo passato. Nella maturazione personale le due
spinte si integrano o si contrappongono, a seconda dei momenti e delle fasi
storiche in cui andrà imbattendosi. Tutto si tradurrà in un intreccio unico, in
una unità esistenziale che le sue scelte di vita manifestano di volta in volta.
In questi anni matura in lui una scelta preferenziale: quella della “chiesa dei
poveri”. Una scelta per l’azione sociale, per lo sviluppo e il progresso della gente
povera, per la sconfitta della fame e del sottosviluppo, che però non gli fa
dimenticare i valori evangelici che hanno maturato la sua complessa e dinamica
personalità ma, anzi, li irrobustisce.
Solo in questa prospettiva vanno lette certe accentuazioni socio-politiche e,
per conseguenza, certo suo “mettere tra parentesi” le spinte a sfondo evangelico,
di cui era imbevuta tutta la sua persona e che lo portavano a uno stile di
vita povero, altruistico, pieno di attenzione alla tragedia del sottosviluppo.
Con l’occhio sempre vigile alle strategie politiche nazionali e internazionali e
alle scelte ecclesiastiche in corso, egli le analizzava con una visione critica che
non raramente lo portava a opporsi alle teorie e prassi dominanti del momento,
sia in campo ecclesiastico sia in campo politico-economico.
Tutto ciò lo rendeva “ingestibile” e “non inquadrabile” dal punto di vista
politico, ecclesiale e sociale. Solo chi lo ha seguito in questa evoluzione e ricerca
continua, lo ha compreso ed è rimasto affascinato dalla sua personalità intrisa
di motivazioni e di ragioni di vita ispirate dalla speranza di un mondo nuovo
e incarnate in un attivo operare perché qualcosa di nuovo accadesse.
Chi lo ha guardato dall’esterno, chi ha voluto farne una bandiera, chi ha
tentato di farlo “stare” in uno schema, in un quadro ben definito (partito,
chiesa, ordine), si è puntualmente scontrato con lui. Prosperino lo ha incastrato
con atteggiamenti congeniali solo a lui, qualche volta caratterizzati da una
certa violenza che lasciava tutti perplessi. Nella irruenza della sua dialettica era
capace di “passare su” teorie e persone, salvo poi ripiegarsi su se stesso arrivando
a una riconciliazione umana e cristiana con le persone e a una tolleranza
con le teorie e prassi da lui ritenute inique. Un modo di fare che lo ha condotto
a ridimensionare certe amicizie, a prendere posizioni frontali con i suoi più
intimi collaboratori, e perfino a escludere dalla sua vita e dalle sue scelte coloro
che, anche se con le migliori intenzioni, lo avevano voluto, a suo giudizio,
strumentalizzare. Per questo suo modo di fare lo chiamavamo scherzosamente
“caterpillar”.
Il colpo di stato in Portogallo del 25 aprile 1974 aveva aperto la finestra
della speranza e inaugurato un clima di maggiore libertà di parola, pensiero ed
espressione. Sembrava ormai lontana anni luce la repressione del governo coloniale
di due mesi prima, quando il Vescovo di Nampula Dom Manuel Vieira
Pinto e i missionari Comboniani erano stati espulsi per i loro pronunciamenti
pubblici “Ripensare la guerra” e “Imperativo di coscienza” (12 febbraio1974)
a cui era seguito da parte dei missionari della Zambézia “Continua
l’imperativo di coscienza” (9 marzo 1974), documento di cui Pro fu uno dei
principali promotori.
L’insediamento del governo di transizione in Mozambico, presieduto da
Alberto Joaquim Chissano (22 settembre 1974), diede maggiore impulso alla
libertà e creò un ambiente di euforia e un continuo pullulare di nuovi gruppi
politici e di proposte in cui l’utopia di una società nuova giocava un ruolo
preponderante.
Intorno a Pro si coagularono le forze vive della società di Quelimane: professionisti,
politici, giornalisti, missionari, imprenditori e studenti. Il movimento
di riflessione e di ricerca per contribuire alla formazione di una nuova
società era guardato con molta attenzione dai politici del Fronte di Liberazione
del Mozambico (Frelimo), che non raramente mandava a Quelimane le personalità
più in vista a partecipare a questa “fucina” di pensiero e di azione.
I contatti con gli esponenti della rivoluzione mozambicana, le sue visite segrete
alle basi strategiche dei guerriglieri del Frelimo di Mongue, Morrumbala,
Derre fino a quella di Bagamoio in Tanzania, gli davano la sensazione che la
transizione verso la nuova società non sarebbe stata indolore. Comprendeva
bene che la rivoluzione portata avanti dal Frelimo avrebbe prodotto un cambiamento
radicale. Non ci sarebbero state indulgenze o ripensamenti. Bisognava
rapidamente comprendere ed accettare le imposizioni di un programma
marxista-leninista che pochi sconti avrebbe fatto alla chiesa e alla società coloniale
mozambicana.
Le utopie delle nuove formazioni politiche e dei gruppi di pressione durarono
poco più di un anno e furono cancellate dalla “marcia trionfale” del futuro
presidente del Mozambico Samora Moisés Machel, che agì come un colpo
di spugna. Dal primo discorso al popolo nel nord del Mozambico (27 maggio
1975) cominciò la caduta libera della speranza e l’imposizione di una “realpolitik”
marxista-leninista.
Non vi era più spazio per la libertà. Le aggregazioni politiche e i movimenti
che utopicamente sognavano una nuova politica ridisegnata per un nuovo popolo
che si affacciava alla storia dei popoli liberi, si sciolsero come la neve al
sole.
La delusione per una speranza perduta cominciò a serpeggiare nella coscienza
delle persone.
Con quest’ animo si celebrò l’indipendenza nazionale il 25 giugno 1975.
Un mese dopo (24 luglio 1975), la legge sulle nazionalizzazioni della terra,
dei servizi sociali (banche, scuole, ospedali, missioni ecc.) e delle abitazioni
smascherò il vero volto del progetto politico dei nuovi signori del popolo.
Si scatenò un periodo vivace e di forte impegno per Pro in aiuto di suore,
frati, laici e famiglie che in ventiquattro ore si videro usurpati dei loro beni
senza nessun preavviso, espulsioni in massa e processi pubblici per direttissima
contro i missionari che avessero resistito al colpo di mano. Era la legge del
“24h + 20kg”. E cioè, ventiquattro ore di tempo per partire con venti chili a
disposizione! Dispiacere, insicurezza, rabbia, delusione, umiliazioni, offese…
Prosperino divenne il punto di riferimento, di conforto. Anche se a nulla
servirono i suoi interventi presso i responsabili delle violenze e degli abusi e
neppure presso quelli che avrebbero dovuto tutelare l’ordine o il buon nome
della rivoluzione.
Poi cominciarono le “purghe” interne nel partito Frelimo. Nel giro di poco
tempo, coloro che erano gli eroi della prima ora, che avevano guadagnato il
prestigio nel tempo della lotta armata, furono allontanati dalla scena politica
per essere sostituiti da quadri ideologicamente sicuri.
E ancora una volta Pro dovette curare piaghe e ferite prodotte dalla rivoluzione
sui rivoluzionari.
Ripeteva: la rivoluzione mangia i suoi uomini migliori! Questo sarebbe stato
il suo destino!
Dalle parole ai fatti
Quando fu abolita la libertà di parola, di pensiero e di riunione, Prosperino
passò dalle parole ai fatti.
Il “circolo di cultura” (circa 130 persone: studenti, giornalisti, politici) che
si riuniva presso la casa dei Cappuccini, spinto da Prosperino, si orientò verso
un’azione sociale e produttiva, si inserì nel Gruppo dinamizzatore (un organo
politico di base) del quartiere Samugue, cui territorialmente apparteneva la casa
dei frati.
Oltre all’impegno di lavoro o di studio, questo gruppo si interrogava, durante
la celebrazione domenicale, sulla possibilità di vivere la sua vocazione cristiana
in una società marxista.
Con la sua presenza, il quartiere Samugue acquistò forza e dinamismo e assunse
il ruolo di leader nel campo dello sviluppo e della vittoria su fame e sottosviluppo.
In esso nacque una proposta alternativa alle scelte operative del
partito unico Frelimo.
La rete economica del Paese cominciava a dare segni di cedimento. I negozi
cominciarono a svuotarsi dei prodotti alimentari e di ogni genere di beni di
consumo.
Il governo per far fronte alla fame aprì le lojas do povo, negozi statali per
l’approvvigionamento e il razionamento dei prodotti e, dal punto di vista produttivo,
nacquero le machambas do povo, campi comunitari e collettivi la cui
produzione era destinata al rifornimento dei negozi statali.
Fu un fallimento.
In questo contesto si inserì l’opera innovativa di Prosperino, che scelse la
via del cooperativismo e convinse il popoloso rione di Samugue ad organizzarsi
in cooperative che, sebbene sotto la guida dell’ideologia marxista del partito
Frelimo, garantissero ai soci la proprietà della produzione e dei mezzi di produzione.
Non fu facile ottenere la fiducia della gente già scottata dall’esperienza fallimentare
dei campi collettivi, incentivati dal partito. E più difficile fu ottenere
l’aiuto delle strutture governative o statali alle cooperative, guardate con sospetto
dal partito. Ma Prosperino seppe guadagnarsi la fiducia degli uni e degli
altri, soprattutto quella della gente che puntò su di lui la scommessa della speranza.
Negli anni 1975 e 1976 riuscì a mettere le basi delle prime cooperative che,
dopo un periodo di sensibilizzazione, passarono ai fatti: su una grande estensione
di terreno (circa 200 ettari), una trentina di cooperative di produzione e
di consumo cominciarono a lavorare la terra e a produrre beni di consumo.
Nello stesso tempo, le autorità governative gli affidarono la direzione delle
brigate di appoggio alle cooperative, non senza imporre il divieto di attività
religiosa. Pro accettò la condizione senza riserve per poter contribuire col suo
lavoro, il suo pensiero e la sua spinta realizzatrice a dare dignità alla gente e
renderla protagonista del proprio futuro.
In una delle nostre lunghe chiacchierate mi diceva: «Quando fu costituito
nel nostro quartiere di Samugue il Gruppo dinamizzatore mi son sentito obbligato
in coscienza a parteciparvi insieme con giovani studenti e con tutto il circolo
culturale che si riuniva nella nostra casa. I giovani si sono entusiasmati e
continuano a venire. Per gli intellettuali è molto difficile entrare nelle dinamiche
delle riunioni popolari. Molti stanno abbandonando questa esperienza.
Ma per me e per i giovani studenti mozambicani è più facile. Siamo allenati
dall’esperienza avuta con te a Luabo nelle cooperative di Sakovinyo, Catchope,
Mwanavina e Nyamatimbira. Le riunioni sono lunghe e logoranti, qualche volta
senza nesso e senza senso. La gente è sfiduciata dall’esperienza dei campi collettivi.
Non c’è nessun incentivo per lavorare e produrre se la produzione va
altrove. Ma le gente si esprime, parla, analizza, prende coscienza.
Una volta ho preso la parola e ho proposto al popolo di organizzarci in cooperative
e dopo varie riunioni la gente ha accettato la proposta. Non è difficile
convincere il popolo. È difficile convincere i burocrati della rivoluzione che
si sono intestarditi con la produzione collettiva. Trovo una forte resistenza da
parte del partito. La lotta sarà dura. Molti non riescono a capire come un missionario
possa essere capace di parlare in questa forma rivoluzionaria senza mescolare
l’azione di sviluppo con la religione. Mi sento controllato. Ma la gente
soffre la fame, la malattia, lo sfruttamento, l’analfabetismo, la lontananza dei
servizi sanitari e delle scuole. La gente è sfiduciata. Noi dobbiamo lottare per
far nascere la speranza ad ogni costo.
Molto ci aiuta l’alfabetizazzione col metodo di Paulo Freire. Gli studenti
venuti da Luabo hanno molta pratica e riescono a far scattare nelle gente la coscienza
delle proprie capacità e dei propri bisogni. C’è un fermento straordinario.
Specialmente le donne… le donne rispondono più dei maschi. Sono più
attive e più desiderose di uscire dal sottosviluppo, perché esse sanno che
ricadono su di loro la conduzione dell’economia familiare e la cura dei figli. E
se non hanno cibo e soldi come possono vestirli, mandarli a scuola e curarli
quando si ammalano? Non possiamo abbandonare la gente a se stessa.
Cristo ci insegnerà a essere cristiani e frati in una rivoluzione che qualche
volta opprime l’uomo. L’impegno sociale e quello politico, il lavoro, hanno un
valore in sé come ha un valore in sé l’essere frate e missionario. Le due cose
possono essere vissute in tempi diversi ma con la stessa intensità.
Una attività non va confusa con l’altra. Le uniscono l’onestà, la dedizione,
la testimonianza. Per me è tutto chiaro: se voglio essere utile al prossimo e donargli
la mia vita, se voglio aiutare il popolo a migliorare le proprie condizioni
socio-economiche, non ho altra via se non quella della testimonianza».
Verso la metà del 1976 in uno scritto, così definiva la virulenza della rivoluzione
marxista in corso e la convinzione sua e dei missionari cappuccini a
rimanere in Mozambico nonostante tutto:
«(Quella mozambicana) è una rivoluzione che tende a monopolizzare tutto
il potere senza possibilità di alcun pluralismo […] Eppure il contenuto di
questo processo si propone di distruggere la disuguaglianza, lo sfruttamento
[…] Non possiamo noi missionari […] non rallegrarci di fronte a questi passi
verso una società più giusta […] La giustizia, l’uguaglianza, la fraternità, la solidarietà,
la lotta contro l’elitismo, la corruzione, la prostituzione, l’alcolismo
sono autentici valori cristiani anche se predicati e propagandati dal Frelimo
[…] Questi valori umani, dobbiamo riconoscerlo, sono anche cristiani perché
annunziati da Cristo […]
Noi missionari riteniamo che fare l’esperienza di
chiesa in ambiente socialista è una grazia. La spoliazione dei beni materiali ci
fa fare l’esperienza della chiesa dei poveri e ci fa vivere il nostro specifico carisma
francescano, ci aiuta ad illuminare dal di dentro la fede marxista per
proiettarla nella speranza […] e dare all’uomo comunista l’allegria e la pace
cristiana […] Forse l’esperienza rivoluzionaria ci costringerà ad accettare cammini
inconsueti, ma che sono sempre degni dell’uomo che cerca di incarnarsi
nell’ansia di una umanità più giusta […] La nostra vita (interna di fraternità)
[…] deve essere dinamica e adattarsi alle esigenze della comunità umana, della
rivoluzione, del popolo e della politica locale. Siamo stati educati ad essere
“professionisti del culto” […] la rivoluzione ci impone di essere produttivi e di
considerare il lavoro manuale come tempo impegnato della nostra giornata
[…] Siamo coscienti di non essere semplicisti in questa valutazione della rivoluzione
e del cammino che vogliamo percorrere insieme lucidamente […] Partendo
da questa analisi, accettiamo la situazione attuale del Mozambico, che ci
mette in uno stato di insicurezza materiale. Siamo decisi a restare in Mozambico
[…] per continuare a testimoniare lo spirito e la speranza di un mondo migliore
[…] Questa decisione non è maturata da sentimentalismi, ma dalla coscienza
che stiamo testimoniando il messaggio in una situazione critica ma ricca
di contenuti».
Dopo i primi raccolti le cooperative aumentarono in numero e aumentò
anche l’estensione dell’area coltivata che raggiunse i 500 ettari e aumentò ancora
il numero delle ore lavorative dedicate alla produzione cooperativistica.
La gente si sentì incoraggiata a lavorare meglio e di più perché furono rispettati
i patti: detratte le spese per la coltivazione dei campi, messa da parte
una certa somma per creare una sorta di capitale sociale, tutto il resto fu diviso
tra i cooperativisti in proporzione alle prestazioni di lavoro individuale.
Il biennio 1977-1978 segnò un grande incremento nella produzione e
nella coscienza della gente.
Ma a Prosperino non bastava. A ogni conquista, nella sua mente si preparava
una nuova sfida. Diceva: «Le cooperative non possono più vivere isolate,
c’è bisogno di un collegamento tra loro. C’è bisogno di un comitato centrale
che le rappresenti tutte, che pianifichi lo sviluppo e gli interventi. La creazione
di servizi deve essere razionale e la diversificazione della produzione è una necessità.
Non tutte le cooperative possono produrre tutti i beni necessari, ma
tutte hanno bisogno di tutto! Non si possono creare tutti i servizi per ogni cooperativa,
ma ogni cooperativa deve avere accesso ad ogni servizio. Solo un organo
centrale può pianificare e distribuire in modo razionale lo sviluppo».
Nacque l’idea della Unione Generale delle Cooperative. Attraverso quest’organo
centrale, i contadini cominciarono ad analizzare i bisogni e a pianificare
gli interventi.
Si leggeva nel volto di Pro una gioia e una partecipazione indescrivibile
quando comunicava il risultato delle riunioni in cui i contadini dibattevano le
loro strategie e la voglia di piazzare nel proprio villaggio i servizi migliori e più
strategici: le scuole per i figli, i luoghi dell’alfabetizzazione, i pozzi artesiani per
l’acqua potabile, i negozi per le cooperative di consumo, il tragitto di una strada
che avrebbe collegato le cooperative e facilitato il movimento di persone e
di mezzi e l’accesso ai campi e ai servizi.
Non era facile coordinare interessi particolari e distribuzione razionale dei
servizi. Con la sua solita ironia ed umorismo di volta in volta Prosperino era
capace di prendere le distanze dai dibattiti e commentava con una irresistibile
risata, trattenendo con le mani i sussulti della sua pancia voluminosa: «Nero
con nero!», quasi a dire che la logica del popolo era ben differente dalla logica e
programmazione razionale che lui e la brigata governativa portavano avanti.
Si sentiva che Prosperino “pensava alla grande”. Le azioni a piccolo respiro
non erano per lui.
In certa maniera diede fondo alle risorse a sua disposizione e ai mezzi che
ancora erano rimasti ad uso dei frati dopo l’incameramento dei beni delle missioni
da parte del governo: la trivella per i pozzi artesiani col frate (fra Giocondo
Gaudioso) e la squadra degli operai addetti alla perforazione, un camion di
tre tonnellate, le risorse economiche della missione e la casa stessa dei cappuccini…
Anzi questa, a mezzogiorno, era diventata la mensa dei cooperativisti e la
sera un punto internazionale di incontro dei cooperanti che venivano da ogni
parte del mondo verso il Mozambico: ultima spiaggia del socialismo reale.
La tavola era imbandita poveramente come si addice ai frati cappuccini e
secondo quanto permetteva il mercato mozambicano, ricco ormai di bichas,
lunghissime code, alle porte dei negozi dove si immaginava che sarebbero arrivati
prodotti di base come la farina, lo zucchero, il sale, l’olio, i fiammiferi, il
sapone e poco altro.
Nel refettorio dei cappuccini c’era un piatto per tutti, niente di speciale: riso,
cavoli o risotto ai cavoli o cavoli con riso! C’era un piccolo particolare:
mezzogiorno o sera il piatto c’era. Cosa che non sempre succedeva neppure nel
hotel Chuabo, il più “in” di Quelimane!
Il 15 aprile del 1978 fui trasferito a Quelimane. Il Vescovo mi aveva affidato
l’ufficio di parroco della cattedrale della città. Ero molto malconcio per una
operazione allo stomaco, causata da un’ulcera sanguinante. Veramente, era difficile
sopravvivere con l’alimentazione dei cappuccini!
Padre Prosperino mi disse: «Qui non ce la fai! Con tanta gente … non si
può cucinare di meglio! (Ma cosa c’era da cucinare?) Chiedi alle suore che lavorano
con te nella cattedrale, forse loro potranno cucinare in modo più adeguato per te!».
Alta sensibilità di Prosperino! Bassissimo livello di vita per tutti!
Ricomincia il mio rapporto ravvicinato con Pro. Ogni giorno ero con lui e
le gioie, le speranze, le delusioni e le battaglie con gli uomini del partito, le resistenze
da parte delle strutture governative, i suoi sogni di sviluppo… erano oggetto
dei nostri lunghi dialoghi.
Ma la casa dei cappuccini era sempre di più un punto di incontro e di confronto,
il luogo dove intellettuali e contadini, politici e amministratori, cristiani,
atei e musulmani, rivoluzionari e reazionari, intorno a Pro discutevano,
mangiavano, condividevano le esigue speranze che il grigiore di una rivoluzione
orientata strategicamente contro l’uomo faceva intravedere.
La fine di un sogno
11 dicembre 1978. Una mattina calda e afosa.
Padre Prosperino mi telefona. Sono in Cattedrale. Mi chiede di andare urgentemente
al convento cappuccini. Stranamente la casa è vuota, non c’è il solito
movimento di persone e macchine. Strano silenzio. Pro è seduto alla sua
scrivania.
Il governatore della regione della Zambézia, Osvaldo Tazama, lo aveva convocato
nel suo gabinetto per comunicargli testualmente e senza preamboli:
«Grazie, Prosperino, per il lavoro che hai realizzato nelle cooperative. D’ora in
avanti ne sei dispensato. Non potrai svolgere più nessuna attività sociale. Non
ti posso accusare di nulla. Solo, è giunto il momento in cui il governo della regione
non ha più bisogno di te. Devi abbandonare il tuo lavoro nelle cooperative
e con la brigata del Ministero dell’agricoltura perché nella Repubblica popolare
del Mozambico la tua presenza di sacerdote è incompatibile con ambienti
politico-rivoluzionari come le cooperative. Se vuoi, puoi tornare dal tuo
vescovo e lavorare sotto la sua guida!».
Da quel giorno cominciò il suo calvario; era un cane bastonato, indifeso,
un leone ferito in gabbia ma indomito. Gli mancava la gente.
Cercava le ragioni di tale sospensione dal suo lavoro, fino al giorno in cui
gli dissero che se voleva risolvere la questione poteva ricorrere al governo centrale.
L’11 gennaio 1979 parte per Maputo, la capitale del Mozambico. Riprende
la sua via crucis di ministero in ministero, di polizia in polizia. Finalmente il
direttore nazionale della polizia di investigazione criminale (PIC) gli chiede un
pro-memoria del suo operato.
Il 19 gennaio, in risposta, riceve l’invito ad abbandonare il Paese come persona
non gradita.
Insieme con Giuseppe Bartolomeo mi recai a Maputo per salutarlo. Corremmo
il rischio di essere coinvolti anche noi nel caso quando in aeroporto ci
ritirarono i documenti.
Il 22 gennaio lasciò il Mozambico e si rifugiò nel vicino Lesoto. All’inizio
del mese di giugno si trasferì in Tanzania, verso la fine del mese in Italia e a
fine agosto negli Stati Uniti.
Nello stesso periodo scrisse 19 lettere e 8 telegrammi a tutti i ministeri per
chiedere la revisione del processo, fornendo un’appassionata difesa del suo operato,
un’audace accusa a rivoluzionari infiltrati e una commovente confessione
del suo amore per il popolo mozambicano e della sua saudade nel vivere
lontano dal suo popolo.
Non perse occasione per cercare e incontrare varie personalità del governo
mozambicano in visita a questi Paesi, fino all’incontro decisivo col ministro
degli esteri, Alberto Joaquim Chissano, avvenuto a New York.
Che cosa poteva aver causato la sua rimozione e il suo allontanamento dal
Mozambico?
Non era certamente facile tenere il passo di Prosperino. La sua creatività, il
suo amore per la gente lo spingevano a sempre nuovi piani e nuovi progetti. La
sua fantasia era in un certo senso inesauribile nella creazione di nuove opportunità
imprenditoriali e produttive. Tutto ciò lo rendeva punto di riferimento
per investimenti delle organizzazioni internazionali che in lui vedevano un
uomo degno di fiducia, ma offuscava il ruolo del partito Frelimo e dei suoi
rappresentanti. Questi molte volte non erano uomini animati dall’anelito del
progresso e del bene altrui, ma uomini piccoli per i quali essere funzionario del
partito era solo un modo per sbarcare il lunario, e l’entusiasmante impresa di
lenire le sofferenze umane rappresentava solo un motivo di prestigio.
La sua identità di missionario-sacerdote se da una parte gli dava una straordinaria
carica umana, dall’altra lo rendeva, agli occhi del partito, un sospetto,
un infiltrato, un personaggio equivoco in cerca di altri obbiettivi nella sua azione.
Le sue grandi risorse umane ne moltiplicavano le energie e lo rendevano inesauribile
fino al punto che se qualcuno intorno a lui dava segni di stanchezza
e di incapacità nel tenergli passo, se ne meravigliava e quasi non capiva come si
potesse sentire stanchezza nell’impegno umano, sociale e politico.
Queste sue capacità suscitavano intorno a lui sentimenti opposti:
ammirazione, in chi si ritrovava nei suoi ideali, e gelosia, in coloro che si sentivano
oscurati da tanta ricchezza.
Le sue lettere sono un’appassionata difesa della sua sincerità e correttezza in
relazione al partito e agli ideali che propagandava; sono un’accusa forte contro
elementi del partito che poco avevano a vedere con l’impegno per l’uomo; una
condanna della sommarietà del processo e della ingiusta sentenza con cui era
stato espulso dal Mozambico.
Con estrema franchezza difende se stesso contro le accuse di incoerenza ideologica,
ambiguità e scarsa lucidità politica.
Egli si dichiara un cooperante della rivoluzione mozambicana e non un militante
del partito. Al militante si richiede l’accettazione teorica e pratica alle
tesi del partito, ma al cooperante si richiede la coerenza nell’azione e non nelle
convinzioni personali.
Questa appassionata difesa del suo operato e la voglia di ritornare in Mozambico
per contribuire alla ricostruzione nazionale e al miglioramento delle
condizioni economiche della gente, portata avanti in tutte le sue lettere, produssero
un risultato: la revisione del processo, un passo indietro da parte del
Frelimo e successivamente la riabilitazione.
Joaquim Alberto Chissano, allora ministro degli esteri, fece il passo determinante
con un telegramma che lo invitava a ritornare in Mozambico.
Lo stesso Chissano, ormai presidente della repubblica del Mozambico, nel
discorso pronunciato nel cimitero di Maputo al momento della sepoltura di
Padre Prosperino, ricordava questi fatti, quando, interrompendo la lettura del
suo discorso, disse a braccio: «Padre Prosperino, sebbene italiano, fa parte della
storia del Mozambico: una storia di liberazione nazionale, una storia di lotta per lo
sviluppo economico e sociale.
Oggi sentiamo una grande tristezza per la morte di Padre Prosperino Gallipoli,
ma sappiamo che era una persona allegra, buona e sempre capace di sognare
cose buone per il futuro dei bisognosi. Questa sua maniera di essere,
buona e piena di forza di volontà per realizzare grandi cose, io la capii personalmente
quando ricevetti una sua lettera attraverso cui appresi che esisteva un
certo Padre Prosperino che era stato erroneamente espulso dal paese. Mi attivai
immediatamente perché intuivo, da quanto mi scriveva, che si trattava di un
equivoco. E feci di tutto perché Padre. Prosperino ritornasse e riprendesse il
suo posto in Mozambico. Ed egli lo fece senza mostrare rancore o risentimento
[…]
Voglio aggiungere ancora una nota personale. A causa dei suoi importanti
successi, noi riteniamo che la Unione Generale delle Cooperative sia una vetrina,
un biglietto da visita del nostro paese. Gli stranieri che ci visitano trovano
qui il simbolo del nostro sforzo per realizzare l’autosufficienza, il simbolo
della volontà di contare sulle nostre forze per sconfiggere la povertà.
Padre Prosperino, quando riceveva la visita di personaggi importanti e meno
importanti, faceva sempre un passo indietro, si metteva in un angolino.
Non era lui che appariva a fare gli onori di casa, ma era la UGC. Spesso succedeva
che le persone non si accorgevano neppure di lui e del suo grande contributo.
Non era questo che Padre Prosperino cercava. Voleva solo che l’opera
portata avanti dalle contadine venisse stimata e valorizzata».
Nel segno della speranza
Il 7 dicembre 1979 Padre Prosperino ritorna in Mozambico.
L’ 8 marzo dell’anno seguente, il Ministero dell’agricoltura gli offre un contratto
di lavoro come tecnico di cooperative, proponendogli di lavorare
nell’area delle zone verdi di Maputo.
Nel mese di luglio poteva raccontare la sua avventura a tutti i suoi confratelli:
«In questo triennio ho vissuto tre esperienze differenti.
La prima a Quelimane, nel lavoro tra i poveri del posto, organizzando cooperative
come mezzo per ridestare la coscienza dei mozambicani.
La seconda, fuori del Mozambico, alla ricerca di un punto di riferimento
per risolvere l’incertezza del futuro che la situazione politica aveva determinato.
Tale futuro incerto fu risolto dall’autorizzazione a ritornare in Mozambico.
La terza esperienza è quella che attualmente vivo nel lavoro sociale a Maputo.
Ho un contratto col ministero dell’agricoltura, localizzato nel settore delle
zone verdi.
Il mio specifico ruolo in questo settore è quello di organizzatore del popolo
dei dintorni di Maputo, attraverso le cooperative e il lavoro familiare, per il
miglioramento delle sue condizioni economiche e sociali.
Ancora una volta, considero questo lavoro come mezzo necessario per raggiungere
le profondità del cittadino mozambicano e indurlo a ricercare le sue
capacità per il raggiungimento completo del suo essere persona…
Insieme all’équipe che lavora con me, ho organizzato varie cooperative che
subito hanno suscitato l’entusiasmo del popolo e l’ammirazione di coloro che
vivono con noi…
Per la questione abitativa, mi hanno promesso una casa, che spero ricevere
nella prossima settimana.
Sotto il profilo religioso mi sento compromesso con la diocesi di Maputo.
La domenica m’incontro con un gruppo di giovani ( circa 25), con i quali
vivo l’esperienza religiosa della preghiera e della parola di Dio. Altri sacerdoti
impegnati nel lavoro con il popolo partecipano con me a questi incontri.
Concludo affermando che le tre esperienze di questo triennio sono state
ricchissime di contenuto e mi hanno aperto cammini nuovi per la realizzazione
di me stesso come uomo e sacerdote, proteso alla crescita e donazione agli altri.
Tanto per il popolo di Quelimane, come per quello di Maputo, mi accorgo
che rappresento una speranza nuova. La mia dedizione fa loro capire che io
sono qualcosa di nuovo».
Lo fu per 24 anni, scrivendo un’altra pagina indelebile nel cuore e nella vita
della gente del Mozambico!
Lo è ancora oggi per chiunque cerchi i modi per «costruire una società più
degna e più giusta! Possiamo sempre ispirarci al suo esempio di determinazione
nella lotta, di coraggio, di dinamismo e di voglia di vincere sempre gli ostacoli
verso un futuro migliore […] che il nostro grande amico e maestro ci ha
sempre mostrato e dimostrato come qualcosa di possibile realizzazione […]
Seguiamo il suo esempio e i suoi insegnamenti per dimostrare che siamo capaci
di vincere la miseria e di costruire una società più degna e più giusta».
(Joaquim Alberto Chissano - Maputo, cimitero di Lhanguene, 21 febbraio2004)
Desidero concludere il mio viaggio nella memoria verso un grande missionario
e frate cappuccino di nome fra Prosperino Rocco Luigi Gallipoli, nato a
Montescaglioso, con alcune parole di Mahatma Ghandi. Mi piace immaginare
Pro le abbia lette o meditate insieme con Dom Helder Câmara che, con altri
amici, andò a visitare in Brasile all’inizio degli anni ’90.
Sono parole che identificano perfettamente non “un’ora al giorno”, ma tutta
la sua vita. Una vita donata al Mozambico, al cui cambiamento ha contribuito
con parole e fatti:
«Non riesco a immaginare nulla di più nobile e patriottico di questo: per
un’ora al giorno tutti dovremmo fare i lavori che devono fare i poveri e così ci
identificheremmo con loro e attraverso loro con l’umanità intera. Non riesco a
immaginare migliore adorazione di Dio che lavorare in suo nome per i poveri
e con i poveri».
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