MISSIONI
CORRISPONDENZA DA NANGOLOLO (Mozambico) CIECHI CHE ILLUMINANO OVVERO STORIE CHE SANNO DELL'INCREDIBILE E CHE CI AIUTANO A CAPIRE UNA REALTA' SPESSO CONTRADDITTORIA PREMESSA Quelle che sto per raccontarvi non sono storie che vogliono suscitare la pietà in chi legge o la facile commozione che spesso è volgarmente usata e abusata quando si parla d'Africa “a scopo di lucro”. No, nulla di tutto questo. Sono storie che mi hanno colpito e voglio raccontarvele. L'Africa (e quindi anche il Mozambico) è un continente, sotto molti aspetti, contraddittorio. Queste storie ne sono una conferma e mostrano come, malgrado disabilità e malattia, a volte in modo eroico si lotti per rimanere aggrappati alla vita senza abbandonarsi allo sconforto, al fatalismo, all'accattonaggio, volendo continuare a vivere da…protagonisti. Sono storie semplicemente vere che giorno dopo giorno ho conosciuto vivendo qui nel nord del Mozambico, in un distretto chiamato Mwidumbe, abitato da un popolo testardo chiamato Makonde, nella missione di Nangololo, ricostruita da Fra Francesco Monticchio: missionario di lungo corso. Una ricostruzione radicale: dal cemento alla Parola; dalla scuola alla Evangelizzazione, dalla cooperativa alla Catechesi… Questo sono io: Antonio Baccarelli, a bordo della mia auto Ora non è più qui a Nangololo. Dice di me (Antonio Baccarelli, autore di questi episodi di vita: un giovane laico, nato a Castellana Grotte, vissuto per due anni a Nangololo con fra Francesco, odontotecnico di professione, fotografo per passione, giornalista e operatore radio per forza, curioso ed errante nei sentieri dell'uomo e della terra… cristiano e missionario per l'amore di Gesù per me…) dunque dice di me: “tu sei il mio sostituto legale in missione”!
LUNGO I SENTIERI DEL TERRITORIO MAKONDE HO INCONTRATO… Questo è Tomas
Egli da solo si sposta quasi giornalmente di villaggio in villaggio. Arrivato chiede ospitalità e poi si unisce alla corale del posto che arricchisce con la sua inconfondibile voce. Con sé non porta mai nulla, un vero “spirito errante”, l'immagine di chi va per le strade del mondo sempre alla ricerca di qualcosa, una sorta di “nomadismo spirituale” oserei definirlo. Incredibilmente, facendosi beffa del destino, riesce a guadagnarsi ciò che per un cieco è davvero difficile ottenere: la libertà totale! Circa due anni fa, mi hanno raccontato, che mentre attraversava un ponte alto diversi metri senza protezioni laterali, cadde. Miracolosamente si salvò e un'auto di passaggio lo portò a Pemba dove fu curato in ospedale. Dopo la guarigione continuò a fare esattamente quello che aveva sempre fatto, peregrinare di villaggio in villaggio! Non penso sia il caso di chiederci troppo cosa lo spinga a fare tutto ciò. I perché e i per come, penso siano superflui. È sufficiente ammirare lo spirito e la forza d'animo che lo spingono a tanto e ci tengo a sottolinearlo, non si tratta affatto di una persona con problemi mentali…anzi! C'è poi la storia di Mpeme. Un ragazzo che vive nel mio villaggio. Le prime volte l'avevo incrociato distrattamente sul sentiero che va alla sorgente sempre con due taniche da 10 litri . Quando però mi resi conto che Mpeme era cieco, completamente cieco, incredulo chiesi informazioni ai miei collaboratori e loro mi risposero tranquillamente: “… ah, sì, è cieco, va alla sorgente”; “ma come fa?” - replicai io - “si è abituato” fu la risposta!!! Il sentiero che va alla sorgente è una discesa ripida, sconnessa, lunga almeno 800 metri e piena di precipizi e loro mi rispondono candidamente “si è abituato”!!! Ovviamente Mpeme fa tutto questo per guadagnarsi da vivere dato che quell'acqua che trasporta per tutto il giorno gli permette…di mangiare! Una volta infatti trovatolo per strada gli chiesi cosa ne facesse di quelle due taniche piene d'acqua e lui mi rispose: “Faccio il venditore d'acqua!” Certo, qui non c'è la pensione di invalidità ed anche i ciechi se appartengono ad una famiglia molto povera (com'è il caso di Mpeme) per vivere fanno cose che sanno dell'incredibile! L'ultima storia, quella Omar che voglio raccontarvi, questa volta è legata alla mia passione per le lunghe camminate di fine settimana. L'anno scorso mi ritrovavo a risalire il famoso fiume Messalo durante la stagione secca nella speranza di vedere qualche esemplare della maestosa fauna africana. Come accade di solito, quando mi allontano oltre un certo “raggio d'azione”, mi faccio accompagnare da chi quei posti li conosce a menadito. Ad un certo punto incontriamo un gruppetto di capanne disperso nella foresta lungo le sponde del fiume e ci fermiamo per riposare e per scambiare quattro chiacchiere e qualche informazione. Ovviamente la prima domanda è sempre la stessa: “da queste parti che animali ci sono? In questi ultimi giorni sono passati elefanti?” Questa è Gabriella, suo marito Michele è dietro la macchina fotografica: mi accompagnano in una mia ‘camminata' Sì, perché è da parecchio tempo che sono letteralmente sulle loro tracce ma dato che qui la vegetazione è composta da boscaglia, è molto difficile vederli anche andando nei posti dove di solito vanno ad abbeverarsi, dato che li frequentano di solito all'alba o al tramonto e, trattandosi di posti lontani, trovarsi li in quelle ore non è proprio facile. Apro una parentesi. La gente che vive in questi posti così remoti non si trova qui per caso, ma ci viene perché lungo le sponde di questo fiume (che è il più grande della zona) la terra è molto fertile. Inoltre anche se nella stagione secca in superficie il fiume è quasi del tutto asciutto, il sottosuolo rimane saturo d'acqua, tant'è vero che per trovarla è sufficiente scavare delle buche sul letto del fiume. Si riescono così ad avere due raccolti di granoturco l'anno e questo non è poco per un'economia basata quasi esclusivamente sull'agricoltura. Chiusa parentesi. Come dicevo quindi, mentre si parlava del più e del meno, noto un ragazzino seduto davanti ad una capanna col capo chino. Mi avvicino, sembrava piangesse. Lo saluto, ma stranamente non mi risponde. Nel frattempo avevo scoperto che non ci eravamo fermati li per caso ma perché ci viveva il fratello di Maurizio, uno dei ragazzi che mi accompagnava e per la precisione quello che più di tutti conosceva bene questi posti. Anch'io conoscevo bene lui da diversi anni dato che faceva parte della “mitica squadra” dei tempi di P. Francesco, la quale faceva funzionare le tante attività della missione come un meccanismo dagli ingranaggi ben oleati. Chiedo allora a Maurizio cosa avesse quel ragazzino (che poi altro non era che suo nipote) e lui mi spiega tutto. I guai erano iniziati qualche tempo fa quando Omar (è questo il suo nome) iniziò ad avere bruciore e secrezioni ad un occhio del quale poco a poco perse la vista. Lo stesso accadde per l'altro occhio. Ora quindi si ritrova con due occhi che gli bruciavano maledettamente e da cui non ci vedeva più. Avvicinandomi nuovamente infatti, notai che quelle non erano delle lacrime normali ma biancastre, lattiginose. La storia mi colpì molto e chiesi cosa avesse fatto per curarsi. Seppi che i genitori l'avevano portato in un ospedaletto rurale ma senza risultato. Ultimamente si erano affidati ad un “curandeiro” (una sorta di stregone – guaritore) ma la situazione non migliorava affatto. Provai allora a fargli delle foto con l'intenzione di mostrarle ad un oculista in Italia. Ma il contatto con la luce gli provocava dolori così forti che riusciva a tenere l'occhio aperto per frazioni di secondo. Provai comunque a scattare qualche foto. Poi cercai di organizzare un incontro a Nangololo in modo da portarlo a Pemba alla prima occasione nella speranza che nell'ospedale principale della regione riuscissero a fare qualcosa, almeno per eliminargli il dolore. A Nangololo però Omar non ci venne. Quando a maggio sono rientrato in Italia, nello sviluppare le foto ho notato che in effetti in tutti gli scatti Omar era venuto con gli occhi chiusi. Unico indizio per il medico poteva essere quella lacrima biancastra ed il mio racconto. Con quei pochi dati non poteva fare nessuna diagnosi precisa ma avanzare solo ipotesi. E sulla scia di quelle ipotesi mi riempì la valigia di farmaci che potevano essere utili anche per altri bambini affetti da patologie simili. Ad agosto ero di nuovo a Nangololo e dopo qualche giorno Maurizio seppe che ero rientrato e venne a salutarmi. Gli chiesi dello stato di salute del nipote e mi disse che continuava sempre uguale. Senza molta speranza, gli detti due tubetti di pomata e gli spiegai le modalità d'uso. I giorni passarono, trascorse quasi un mese fino a che un sabato mattina mi venne a trovare perché dovevo chiedergli informazioni su un posto che volevo raggiungere. Entrato nel cortile inizia a parlare col suo portoghese traballante. Ad un certo punto mi dice: “ah, ho portato quel mio nipote malato”. Era rimasto fuori e così lo fece subito entrare. Incredibile, fantastico, entrò da solo, gli occhi aperti, sgranati. “sta meglio” mi disse “vorrebbe chiederti se hai ancora di quella medicina, ha funzionato!”. Ed in effetti poi seppi che era venuto da solo percorrendo almeno 20 chilometri proprio per questo. Mi pervase una gioia immensa, non credevo ai miei occhi. Certo, non avevo recuperato la vista al 100%, ma dopo un anno di sofferenze e cecità non aveva più bruciore, secrezioni e, da quello che capii, riusciva a distinguere bene le forme. Sembrava quasi un miracolato e sorridendo pensai a quel particolare miracolo operato da Gesù nei riguardi del cieco di Betsaida il quale (dopo il primo tentativo) vedeva gli uomini “come alberi che camminano” (Mc. 8,24). Andai subito a prendere la macchina fotografica per scattare delle foto da mostrare al mio amico oculista. Poi ci salutammo e mentre se ne andavano chiesi a Maurizio dove risiedesse Omar. “E' tornato lungo il Messalo” rispose, ed aggiunse “mi ha detto che in questo periodo gli elefanti ci sono e, ogni giorno verso il tramonto, vanno spesso a bere la poca acqua rimasta”. “Va bene, Maurizio, organizzeremo quanto prima una bella spedizione. Dormiremo lì una notte come facemmo alcuni anni fa e questa volta gli elefanti li vedremo, sì che li vedremo…puoi scommetterci!”.
Questi sono Michele e Gabriella, in viaggio di nozze, sono venuti a visitarmi: Bravi, eh?! UNA BREVE RIFLESSIONE CONCLUSIVA Di queste storie, soprattutto dell'ultima, non voglio che venga colto solo l'aspetto a lieto fine, ma non voglio smentire quanto ho raccontato. In realtà il problema riguarda le carenze di un sistema sanitario quasi inesistente. Sicuramente sarebbe bastata una diagnosi benfatta in tempo per evitare tanta sofferenza ed il peggioramento della malattia. Questo ovviamente succede in tutti i campi della sanità, non solo in quello oculistico e quindi traetene voi le conseguenze. Per risolvere la situazione ci vorrebbe la bacchetta magica, ma non avendola a disposizione non c'è da sperare che la pace continui negli anni e che la situazione si evolva (seppur lentamente) in meglio, in questo come in altri campi (istruzione…). Vorrei augurarmi che, come al solito, non siano solo le cose inutili a diffondersi per prime (come sta già accadendo) a causa di una globalizzazione che segue solo le maledette leggi di mercato senza occuparsi minimamente delle reali necessità della gente. Quell'insieme di “droghe”… cellulari, DVD, super alcolici e via dicendo ne sono un esempio reale essendo reperibili dappertutto e purtroppo sono la conferma di come questa realtà sia caratterizzata dalle contraddizioni. Dedico a Tomas, a Mpeme, ad Omar e a tutti coloro che non danno nulla per scontato e definitivo, ma giorno dopo giorno continuano il loro viaggio…fuori o dentro di sé: “I viandanti vanno in cerca di ospitalità nei villaggi assolati e nei bassifondi dell'immensità e si addormentano sopra i guanciali della terra. Forestiero che cerchi la dimensione insondabile la troverai, fuori città…alla fine della strada” Antonio Baccarelli Missionario in Mozambico Sono in laboratorio… non mi disturbate!
Ed ora sono io fra Francesco Monticchio a completare con un post-scriptum questa corrispondenza da Nangololo Antonio Baccarelli, come lui stesso dice, ha vissuto con me a Nangololo per 2 anni. Insieme abbiamo pensato e realizzato il progetto della sua presenza a Nangololo. Ora la missione vive della sua azione e presenza. Insieme abbiamo costruito un laboratorio odontotecnico, che in questi ultimi anni è stato promosso a studio dentistico; abbiamo costruito una studio fotografico ed inaugurato una emittente, la Radio S. Francesco d'Assisi. Questi sono i settori del suo impegno missionario ricevuto come grazia e dono dell'amore di Cristo per lui, come egli stesso afferma. Pensavo che tutto si fermasse alla fine dei due anni del suo “libero” contratto missionario. Poi ha deciso di ritornare e rimanervi …a lungo termine. Ecco quanto mi scrive in una sua lettera: Caro Padili (=padre) Francesco, da quando il 2003 ho deciso di ritornare qui a tempo pieno il lavoro nel laboratorio odontotecnico come al solito è sempre tanto. Anche lo studio fotografico va avanti ormai da solo. Vi lavorano autonomamente due ragazzi del villaggio e la cosa bella è che non dipendono più in nulla dall'Italia. Con i soldi delle entrate delle foto-tessere si compra tutto il materiale necessario a Maputo (la capitale del Mozambico) si pagano gli stipendi e spesso (dipende dall'affluenza della gente) rimangono un po' di soldi nella cassa. Insomma un piccolo progetto nato per caso che si è rivelato molto utile. Anche la Radio S. Francesco d'Assisi ( finanziata dai “ cugini Monticchio” e gruppo missionario di Campi Salentina) funziona a regime di sole, visto che l'energia è quella solare, ma molto puntualmente. Abbiamo costruito un'antenna più alta e quindi rischiamo con soddisfazione di andare molto oltre il territorio della missione. Anche questo progetto comincia a camminare con le sue gambe: tra spot pubblicitari e i messaggi, comincia ad autofinanziarsi. Ma prima di tutto era e rimane un forte mezzo di comunicazione sociale e di evangelizzazione. La grossa novità di quest'ultimo anno poi è stato il fatto di aver potuto far funzionare con regolarità lo studio medico-dentistico (già era stato costruito e avviato al tempo della venuta del dottor Giovanni Arena che tu mandasti quando eri parroco a Taranto) grazie all'arrivo nella missione di Macomia (200Km da qui) di una suora dentista, suor Sonia Gomez, di nazionalità colombiana, della Congregazione delle Suore Carmelitane di S. Giuseppe. E' venuta in Mozambico il 2004. Ci siamo conosciuti per caso. Parla e parla: “Dove sei tu e dove sono io; cosa fai tu e cosa faccio io” … ci siamo scoperti dello stesso mestiere… anche se il suo è di grado superiore: una dentista! Una suora! Anche questo è stato un avvenimento che ha quasi dell'incredibile. Io, fino ad ora, non avevo mai sentito parlare di suore dentiste ed invece me ne sono ritrovata una “caduta letteralmente dal cielo” a qualche chilometro di distanza dal nostro studio dentistico!... posizionato verso la fine del mondo! Fra le tante difficoltà e problemi che spesso rendono difficile il lavoro, a volte succedono cose proprio sorprendenti! Ora lo staff è al completo e posso svolgere la mia attività con più tranquillità grazie a questa preziosa collaborazione. La gente, poi, può usufruire di un servizio qualitativamente impensabile per gli standard locali grazie alla sua professionalità, a strumenti veramente sterili, anestesia, possibilità di fare otturazioni, detartrosi ecc… Insomma, col passare degli anni ad ogni rientro in Mozambico ho sempre le valigie più pesanti cariche di ogni tipo di materiale ma in fondo ne vale la pena, vedo sempre più gente sorridere!!! Ecco una proposta missionaria: con un po' di buona volontà possiamo essere utili agli altri, possiamo essere segno di speranza per la gente più sfortunata!. Fra Francesco Monticchio
Fra Giuseppe Gaudioso:una presenza forte nella Missione della Zambezia Inferiore in Mozambico Fra Giuseppe con i suoi giovani allievi 20 Novembre 2005: Fra Giuseppe Gaudioso, missionario in Mozambico, racconta davanti al Padre la sua lunga giornata terrena e missionaria…. Fra Giuseppe partì in missione col primo gruppo di frati della nostra provincia; per permetterglielo fu autorizzato a professare solennemente prima dello scadere del tempo. Arrivato in missione il 5.5.1951, dopo alcuni mesi di ambientamento con i frati cappuccini della provincia di Trento, già in Mozambico dal 1949, Fra Giuseppe fu destinato alla Missione di Chimwara nel distretto di Mopeia. In questa sede “provvisoria” della futura missione di Mopeia, vi rimase per un anno curando le infermità del corpo, come infermiere, e dando inizio alle opere di testimonianza cristiana: scuole, case per l'educazione di ragazzi e ragazze. La casa era una vecchia e cadente residenza di una “ sinhara ” (erano chiamate così le signore-donne padroni di un grande territorio che il governo coloniale portoghese concedeva in enfiteusi per facilitare l'insediamento dei bianchi in Mozambico) che per umana pietà aveva ceduto ai frati missionari cappuccini venuti da lontano, sprovvisti e sprovveduti. “Era una casa di topi, pipistrelli, cimici ed altri inquilini equivalenti -così scriveva fra Giuseppe- che fu difficile disallogiare..” Era però in una bellissima posizione, sulla riva del fiume “papà-Zambezi”, si poteva pescare all'amo, ma nei tempi di piena l'acqua sloggiava i missionari. “Siamo soli! Per 5/6 mesi all'anno rimaniamo isolati! -scriveva ancora- Non abbiamo neppure la possibilità di confessarci!...” Fu il battesimo missionario per fra Giuseppe e per il suo compagno P. Renato Greco. L'anno seguente fu destinato a Morrumbala, dove rimase per un anno (nov. 1952/nov. 1953). Il suo impegno principale fu aprire l'infermeria, che gli consentiva una rapporto vivo con la gente e gli faceva esprimere il suo amore per tutti coloro che soffrivano. La casa dei missionari era una “palhota” costruita con pali e fango, coperta di paglia… Bella per fare poesia! Pericolosa per la salute. Qui fra Giuseppe cominciò a sapere quanta attenzione fosse necessaria per non fare eroismo inutile: col suo senso pratico riuscì a trovare modalità più idonee di vita, per sé e per tutto il gruppo missionario per non soccombere alle malattie. Insieme a P. Pompilio da Campi diede inizio alla costruzione della futura missione di Morrumbala. Le sua capacità organizzative, la resistenza al lavoro, la sua dinamicità, la sua esperienza di vita, il senso della fraternità e la sua capacità di comunione con tutti i frati lo resero utile e necessario in ognuna della missioni che in quei primi anni erano tutte in cantiere. Dal novembre 1953 a giugno 1955 fu chiamato a Inhassunge, dove continuò con la sua testimonianza preferita, la cura degli infermi. Ma qui cominciò a mettere alla prova anche le sue capacità edili e di vero capo-mastro. In questi anni la missione di Inhassunge divenne la sede del superiore regolare e la casa di incontro di tutti i fratelli per riunioni e tempi di riposo. Qui dimostrò le sue capacità di rapporto umano e comunione con le persone a cui voleva portare Cristo Signore. Nel lavoro di infermeria associò a sé alcuni ragazzi, e, come si suol dire, “se li crebbe”. Due di loro non solo ne fece due infermieri, ma fu capace di sviluppare le loro grandi potenzialità anche in altri campi. Uno, Ernesto Sortane, divenne il factotum della missione fino al giorno in cui morì in un incidente. L'altro, Conrado Manuel Patricio, che in seguito lo seguì a Luabo, divenne in un primo momento insegnante, poi catechista insieme alla moglie Clementina. Una volta incamminato verso l'evangelizzazione, Conrado divenne un vero attore della “nuova evangelizzazione” che cominciò a essere posta in atto all'inizio degli anni ‘70 quando, sotto la spinta del Concilio Vaticano 2°, la promozione umana (cooperative agricole ed altre attività sociali a favore delle donne e dei giovani) divenne la porta di entrata di Cristo nella cultura e nell'anima dei mozambicani. Era l'inizio della inculturazione dove la parola ‘evangelizzare' indica la conoscenza della lingua, della cultura, della religione tradizionale attraverso cui Dio si rivela ad un popolo precedendo l'arrivo del missionario, conoscenza degli usi e costumi del popolo che ospita il missionario… Momenti tutti che formano un tutt'uno con una certa maniera di porsi e collocarsi del missionario di fronte ad un popolo che non è considerato come un ricettore di un messaggio ma come un portatore di valori, e cultura in cui Dio è fortemente attivo; quei valori e quella cultura che rendono il cuore di ogni uomo e di ogni donna, il cuore di ogni popolo, cultura, lingua e nazione predisposti ad ascoltare quanto il Padre ha detto all'uomo in forma definitiva in Cristo Gesù. Un altro pezzo della sua vita lo visse a Quelimane, nella “ Casa da pouca sorte ” (casa sfortunata!). Qui fu il suo vero tirocinio missionario: vi rimase per 8 anni (1958/1966). Si dedicò alla ospitalità dei missionari e offrì una testimonianza di fratello cappuccino che lo rese conosciuto in tutta la città. L'ospedale, le carceri la scuola annessa alla piccola casa della ‘pouca sorte' che egli stesso aveva creato, la catechesi ai piccoli, l'accoglienza ai poveri furono i ‘luoghi' della sua evangelizzazione. Dal 1955 al 1958 e dal 1966 al 1977 lo troviamo in due riprese a Luabo. Di questa missione Fra Giuseppe se ne innamora. Stabilisce con la gente un rapporto di simpatia, di condivisione e di partecipazione. La cittadina di Luabo, sede di una importante zuccherificio, era una città difficile, complessa, cosmopolita piena di tensioni e interessi e di contraddizioni, una fucina di razze ed etnie umane… Una ambiente idoneo per fra Giuseppe: per tutti aveva un sorriso, per tutti una sguardo comprensivo, per ogni situazione di tensione una visione pacata, per ogni facile ingiustizia un atteggiamento benigno, benevolo. Neri e bianchi, indiani e mulatti, le tribù degli Asena, Lomwe o Etxuabo, ricchi e poveri, operai e dirigenti avevano in fra Giuseppe un punto di riferimento. La casa dei frati missionari era il punto di incontro per tutti. Là trovavano il “ frei Irmao ”, il frate-fratello! Casa della missione di Luabo abbellita da fra Giuseppe e incendiata dai guerrilheiros Anni intensi per fra Giuseppe. Eleva un primo piano alla casa dei missionari, rendendola la più bella e confortevole delle nostre missioni. Partecipa alla costruzione del “Colégio S. Francisco de Assis”: una scuola media superiore della missione per la gioventù di ogni razza. Fa sua l'idea di una nuova evangelizzazione che partiva dallo sviluppo umano dell'uomo per arrivare alla proposta di fede. Attraverso il suo fratello fra Pancrazio Gaudioso trovò i fondi per comprare i primi due trattori da donare alle cooperative agricole, per la costruzione della “Casa dello Studente”, capace di ospitare 40 ragazzi neri idonei a frequentare la scuola superiore, ed infine per comprare una trivella con cui, l'altro suo fratello Giocondo Gaudioso, missionario anche lui, realizzò un centinaio di pozzi artesiani in tutta la Zambezia, regione in cui erano sparse le missioni dei frati Cappuccini di Puglia in Mozambico. 1977. Anno difficile per la situazione socio-politica in Mozambico: era avvenuta l'indipendenza del paese e la rivoluzione marxista. Tutto quanto aveva costruito, gli sembrò che andasse perduto. Ne guadagnò un esaurimento tale che dovette tornare in Italia….. Non ritornò mai più in Mozambico. Ma il suo cuore e la sua maniera di essere rimasero sempre ‘estranei' al modo di essere di un ‘normale' italiano. C'era in lui qualcosa che non gli era mai uscito dal cuore. C'era un interesse per la gente e la vita della missione di cui mi parlò fino all'ultima volta che lo vidi, ormai morente. “Per la missione prego ed offro la vita! Dillo ai nostri che sono in Mozambico che me li porto con me davanti al Signore. Le loro fatiche il Signore le sta benedicendo”… Grazie, fra Giuseppe perché con gli altri 7 coraggiosi fratelli apristi una strada che dalla Puglia porta dritto in Mozambico! Grazie perché sei stato uno dei nostri! Grazie per la tua esperienza di vita, saggia ed onesta! Grazie per la tua sensibilità di coscienza che ti rendeva sempre attento ad essere fedele a Dio e agli uomini tuoi fratelli! Fra Francesco Monticchio
FRA GIUSEPPE GAUDIOSO:uno tra i primi missionari, ha concluso la sua giornata terrena Fra Giuseppe nasce a Mola di Bari il 1° settembre 1916 da una famiglia numerosa e segnata dalla particolare benedizione di Dio perché il Signore ha guardato a questa famiglia con un occhio di particolare benedizione perché arricchita da un rilevante numero di consacrati. Il 30 ottobre del 1946 così esprime la sua ferma volontà: “Prima della mia vestizione in qualità di novizio laico chiamato allo stato religioso dell'Ordine Serafico, onde attesto di entrare tra i Minori Cappuccini di Puglia di mia spontanea e libera volontà e mi dichiaro disposto ad accettare e compiere qualsiasi lavoro o ufficio che dai Superiori mi sarà assegnato…” A Chimwara , nel distretto di Mopeia. Ed è qui che Fra Giuseppe riesce ad esprimere tutta la sua carica umana come infermiere e dando inizio alle opere di testimonianza cristiana. A Morrumbala apre l'infermeria dove riesce ad esprimere tanta carità con la gente sofferente. Insieme con Padre Pompilio dà inizio alla costruzione della futura missione di Morrumbala. Ad Inhassunge non lasciò mai la cura degli infermi ma riusciva a mettere in evidenza le sue doti nelle opere di costruzione. A Luabo - Nella mia recente visita in Mozambico avevo già annotato la presenza di Fra Giuseppe a Luabo. Ascoltiamo alcune testimonianze: “….. Stabilisce con la gente un rapporto di simpatia,… ha il modo di esprimersi con tutti con rispetto, gentilezza, fermezza e carità….. Con grande gioia ho potuto constatare l'unanime consenso sugli aspetti che hanno caratterizzato la persona di fra Giuseppe in terra di missione. Cerco di evidenziarne solo alcuni dopo aver ascoltato le testimonianze. La sua accoglienza - “Eravamo agli inizi della missione e non avevamo nulla, ma il lavoro apostolico ci teneva lontani gli uni dagli altri. Quando ci incontravamo vivevamo momenti di gioia e di festa perché fra Giuseppe curava sempre molto bene l'accoglienza dei missionari. Realizzava così la Parola del Signore che dice: accoglietevi gli uni gli altri come Cristo accolse voi, per la gloria di Dio (Rom 15,7) E questo suo ministero fraterno continua come ho potuto ascoltare: “a Quelimane nel 1961 quando arrivai in Mozambico, lui abitava in una casina della missione,… era il luogo d'incontro dei missionari quando venivano in città per le provviste. Lui abitava li: era una casa molto modesta con poche stanze ed una cucina”. Ancora oggi molti portoghesi che allora erano bambini ricordano frate Giuseppe, come uomo gentile, generoso, sempre disponibile al dialogo e al confronto in fraternità; anche quando non condivideva era molto rispettoso. Partecipava alle varie attività che la missione portava avanti nella catechesi dell'iniziazione. I fratelli della vice provincia del Mozambico nella persona del Vice provinciale esprimono il loro ringraziamento al Signore per la presenza di Fra Giuseppe in terra di missione dove si è distinto per la sua carità, accoglienza e generosità, senza finzioni, a volte sembrando troppo audace ma mai staccando la sua vita dalla verità, sincerità, carità operosa e concreta verso i fratelli che ricorrevano a lui per consigli, per amicizia e per incoraggiamento. … Tornò in Italia ammalato. Ma si riprese subito e con il cuore in missione si adattò ad ogni tipo di lavoro, specialmente nell'infermeria, senza rinunciare ai suoi hobbies preferiti: la filatelica e la numismatica che arricchiscono ed impreziosiscono il Museo etnografico Africa - Mozambico. La sua permanenza a casa Betania - Fra Giuseppe arriva a Terlizzi nel 1991 e vi rimane sino alla conclusione della sua giornata terrena avvenuta il 20 novembre 2005 festa di Cristo Re. Fra Diego Pedone, ministro provinciale
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